lunedì 21 dicembre 2009

il business dei piccioni

(In questi giorni ho in testa i piccioni, chissà perché...).

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Il posto che amo di più a parigi è il mercatino dei fiori sull'île de la cité, proprio vicino a notre-dame: uscire in primavera dalla stazione della metro 4 che dà sulla piazza ad esso antistante significa essere investiti da un fortissimo profumo di lavanda, da una luce bellissima e da un'atmosfera di pollini e polveri floreali davvero inebriante (tranne che per chi soffre di allergia, ok: scusate l'indelicatezza).
Questo tutti i giorni della settimana...tranne la domenica, giorno in cui - come ho scoperto per caso durante una passeggiata domenicale raggiungendo il mercatino per comprare un vaso ad aurelia, la mia gardenia - il mercatino dei fiori si trasforma in un mercatino degli uccelli.
Ce ne è di tutti i tipi: pappagallini irrequieti e litigiosi, pulcini, colombe, paperelle di vari colori e dimensioni e...piccioni.
Prima di soffermarmi sugli aspetti curiosi e sollevare tutti gli interrogativi che, riguardo ad essi, affliggono ele e me, vorrei spendere due parole sulla triste circostanza che ho riscontrato tornando di domenica in domenica a visitare il mercatino: si tratta della valutazione del pulcino.
A dire il vero inserisco questo excursus sui pulcini - in un post il cui titolo inneggia ai piccioni - anche per far loro dispetto, dopo che l'altra sera hanno bombardato la povera ele, che passeggiava insieme con me sotto gli alberi sul lungotevere, non diciamo come non diciamo dove non diciamo quanto. Che schifosi.
Tornando ai più docili pulcini, la prima volta che andai al mercatino di domenica era pieno di gabbiette-vetrine in cui venivano venduti dei pulcini di pochi giorni: il prezzo di vendita era di due euro a pulcino. Se non fosse sgradevole dire una cosa simile di una creatura vivente verrebbe da commentare che te li tirano proprio dietro.
Poveri pulcini, che brutta immagine...
La domenica successiva, ricapitando al mercatino e tornando a salutare i pulcini, trovai questi ultimi piuttosto incicciottiti e un po' più piumosi, e mi toccò constatare che il prezzo...era salito a tre euro. Dopo qualche altra settimana, nel momento in cui questi poveretti erano diventati dei veri e propri polletti, il loro valore si attestava intorno ai cinque euro. Che tristezza.
Questa osservazione mi ha messo molta malinconia. Le creature viventi dovrebbero avere sempre lo stesso valore - grandi o piccole che siano - e questo dovrebbe essere inestimabile. Non ci dovrebbe proprio essere modo di quantificare un prezzo e di scriverlo su un foglietto.

Ma torniamo ai piccioni.
Parlando con ele della curiosa osservazione, la mia pragmatica amichetta mi ha chiesto: ma a quanto vendono un piccione? No, perché qua c'è da arricchirsi! Con tutti i piccioni in cui incappiamo quotidianamente a roma sai quanti soldi potremmo fare?!
Diciamoci la verità, la domanda è più che lecita.
Ele ha proseguito: scusa, silvietta, supponiamo (e qui è partito il gedanken) che un piccione costi, che so, cinque euro (stima basata sulla valutazione del pulcino): se noi ci presentiamo come grossiste di piccioni e li vendiamo ai venditori al dettaglio, che so, al 50% del prezzo di mercato, ogni 100 piccioni ci sono da guadagnare 250 €! Ti sembrano pochi?
Allora abbiamo cominciato a discutere gli aspetti pratici, supponendo di rifornire i nostri magazzini catturando i piccioni a roma (il trasporto a parigi è un dettaglio che dovremo valutare, ma se questi fossero sufficientemente intelligenti potrebbero pure arrivarci da soli) e, a tal proposito, ho provato ad obiettare ad ele che non è facile catturare un piccione: per quanto stupido possa essere esso può pur sempre volare, e quindi ha comunque una possibilità di fuga in una dimensione a noi, ahimé, inaccessibile.
Ele ha insistito dicendo che secondo lei la cattura sarebbe più semplice del previsto.
Non so, ero scettica.
Scetticismo scemato il primo sabato in cui sono scesa a roma e sono andata a spasso per la città con ele. Lì ho proprio dovuto ricredermi: ele aveva ragione.
Ad ogni angolo, ad ogni marciapiede c'erano uno o più piccioni che passeggiavano sereni, strafottenti e soprattutto ignari del business che si stava discutendo alle loro spalle; ci passavano rasenti, ci costeggiavano, ci sfioravano, quasi; ele mi diceva: vedi? Ma che ci vuole a prenderlo!? Guarda qui! Questo lo avremmo catturato in un attimo!...Fino a manifestare indignazione vera e propria per quei piccioni che quasi quasi ti tagliano la strada, tracotanti come sono e pieni di quel loro fastidiosissimo senso di superiorità. Verrebbe davvero voglia di acchiapparli e dir loro: forza, adesso non fai lo sbruffone? Adesso non mi tagli la strada?

Un indizio sui metodi di cattura, comunque, mi è apparso per caso sempre in una di queste domeniche pellegrine passate a studiare il mercatino dei fiori/degli uccelli.
Una volta, infatti, ho visto parcheggiato su un lato della strada un camioncino tipo ducato, con una delle portiere laterali aperte, dentro cui si vedevano sacchi e sacchi di mangime; al suo interno, neanche a dirlo, era pieno di piccioni che scroccavano questa abbondanza di semini e approfittavano della mancanza di custodia per sfondarsi di becchime. Data la facilità con cui la suddetta portiera poteva venire chiusa, intrappolando all'interno una buona dozzina di piccioni, mi è stato chiaro che quello è probabilmente il modo in cui i mercanti di uccelli li catturano per poi rivenderli pochi metri più in là. Che amarezza. Chissà perché, la scena mi ha fatto venire in mente il povero pinocchio che, sotto la promessa di tante meraviglie, viene portato nel paese dei balocchi dove, progressivamente, si tramuta in asinello.

Altra brillante trovata di ele: per accrescere il prezzo e venderli a cifre ancora più lucrose - per il venditore - si potrebbero spacciare per piccioni viaggiatori.
A quel punto si gioca tutto sulla forma: ele proponeva di suddividerli in gabbie e inventarci le rotte, tipo mettere in una gabbietta quelli che vanno in america del sud, in un'altra quelli che vanno in australia e così via fino a coprire tutto il pianeta. Li infiliamo in una gabbietta, prendiamo un pezzetto di carta, ci scriviamo sopra - che so - "terra del fuoco" e il gioco è fatto.

venerdì 18 dicembre 2009

piccioni

C'è poco da fare, i piccioni mi fanno pensare alla mia amica luisa (che per discrezione chiamereremo luisa ricci).
Non che lei e loro si somiglino: al di là del fatto che appartengono a due specie diverse, non hanno neanche gli stessi colori; loro sono nero-grigi (a parte qualche raro piccione marroncino o pezzato) mentre luisa è bionda con gli occhi azzurri, anche se forse di questi tempi è più rossa con gli occhi azzurri, non ricordo. Insomma, sarebbe difficile scambiarli per consanguinei. L'associazione di idee è dovuta al fatto che, ai tempi del laboratorio teatrale del liceo, luisa era solita cimentarsi nell'imitazione del piccione. La rappresentazione le veniva benissimo: picchi di realismo erano raggiunti dalla riproduzione dello sguardo vano del piccione e dal modo che questi hanno di muovere le ali, movimento che luisa riproduceva attraverso un sapiente utilizzo dei gomiti e delle spalle. Un mito.
Ciò detto, a parte questo primo momento di tenerezza prodotto dal ricordo della cara amica, i piccioni non riescono a starmi simpatici. Sono brutti. Sono sporchi. Sono, soprattutto nelle grandi città, strafottenti. Passi la bruttezza e la sporcizia, ma la strafottenza proprio non la posso tollerare.

Ci sono molti aspetti dei piccioni che mi impensieriscono.

Uno: dove vivono?
So per certo che possiedono alcuni immobili in piazza cavour, a roma (in particolare sono coproprietari, con lo stato, di parte del palazzo di giustizia) e, data l'altissima concentrazione che si riscontra nel luogo soprattutto d'estate, immagino che abbiano delle strutture di appoggio pure in piazza san marco, a venezia. Intere colonie - o forse dovremmo dire società - di piccioni dominano piazza del duomo, a milano, e la loro presenza non risparmia neanche il campanile di giotto a firenze o le scalinate di san miniato al monte.
A questo punto sarebbe interessante capire su che base avviene l'attribuzione della base d'appoggio: se in funzione degli interessi culturali e professionali dei piccioni - gli studiosi di arte, gli archeologi, i restauratori vengono messi nei luoghi d'arte, mentre i professionisti della finanza abitano le nicchie sopra gli edifici bancari o sulla borsa di milano - o sulla base di un semplice principio territoriale per il quale ogni piccione rimane nella terra dei suoi avi. Vista la facilità con cui i suddetti si spostano questa secondo ipotesi, però, mi sembra poco credibile.
In ogni caso, i piccioni non si organizzano solo in condomini. Esistono anche famiglie singole, e proprio negli ultimi mesi ho scoperto che ce ne è una che abita sopra l'ultimo monitor, nel lato destro del binario, della stazione parigina di denfert-rochereau, RER B, direzione saint-rémy-les-chevreuse. Tutte le mattine vado lì sotto per controllare quanto dovrò attendere il trenino per orsay, e puntualmente trovo sporta la testa di un piccione che dall'alto monitora il via vai sottostante. Dalla confusione e dai movimenti irrequieti della vedetta si intuisce che, dietro di lui, c'è un traffico strano di altri piccioni, ma la visuale dal basso non consente di ottenere maggiori dettagli. Mi sembrano comunque dinamiche familiari, quelle che causano i movimenti inconsulti del controllore: un "fatti più in là che sennò ti vengo addosso con l'ala mentre mangio"; oppure un "oh, hai fatto in bagno che tra poco passa il treno?" fino a più infantili polemiche tra fratelli "mamma, danilo ha sputato una briciola di pane nel mio piatto e io adesso non posso più mangiare".
In definitiva, ciò che resta chiaro è che i piccioni hanno dei possedimenti tali da tappezzare ogni luogo di cultura e di potere della società italiana (nonché europea): a guardarne le proprietà sembra quasi di aver a che fare con un'organizzazione potente come comunione e liberazione o l'opus dei.
Aggiungo a questo che, con sommo rammarico, negli ultimi anni ne ho visti a bizzeffe non solo in europa, ma anche negli stati uniti e, ahimé, in brasile.

Due: ma i piccioni nascono grandi?
Lo chiedo perché non ho mai visto un piccione piccolo. I piccioni, salvo infime variazioni, sono tutti della stessa taglia, ma allora mi trovo costretta a pensare che, delle due, l'una: o le mamme piccione si tengono i piccioncini nel nido fino alla tarda età - e questo atteggiamento potrebbe essere stato mutuato dalla società italiana, dove risaputamente le mamme amano tenersi vicino il loro amato figliuzzo fino alla sua piena maturità, al fine di proteggerlo dalle femmine profittatrici (che non sanno neanche cucinare o stirare una camicia!) che si scaglieranno su di lui non appena questi farà il suo ingresso in società - esasperando il fenomeno fino al punto che, fin quando non raggiungono le dimensioni standard, non possono nemmeno farsi vedere in società, o i piccioni nascono monotaglia, ma allora non si spiega la gestione dell'uovo da parte della mamma - in particolare il processo di gestazione e di deposizione -, sulla cui dinamica, a questo punto, davvero non mi sento di indagare. Voglio fermare qui la mia immaginazione prima che si spinga troppo oltre.
L'assenza di piccioni pulcini, però, rimane un fatto inquietante e inspiegato.

Tre: i piccioni sono davvero stupidi come sembrano?
Un esperto ornitologo mi ha spiegato, di fronte alle mie insistenti denigrazioni dei piccioni, che in realtà essi sono animali intelligentissimi, in particolare la specie del piccione viaggiatore. Sic. Effettivamente, il fatto che essi, da qualunque parte del mondo partano, riescano a trovare la via verso il luogo in cui sono cresciuti, mi impressiona non poco: da fisico, l'unica spiegazione che trovo è che siano sensibili al campo magnetico terrestre e che ne abbiano una mappatura che permette loro di orientarsi. Da nemica dei piccioni, invece, mi sento di polemizzare: siamo sicuri che sia tutta farina del loro sacco? E se nel loro viaggio di ritorno fossero aiutati, che so, dalla nasa, dalle compagnie aeree low cost o dagli alieni? Finché non mi spiegheranno per bene la fisiologia del piccione e la dinamica che in essi produce questo straordinario senso dell'orientamento non mi piegherò ad ammettere il loro valore.

Mille altri interrogativi mi affliggono, ma per ora mi fermo qui.
Solo per ora: bisogna essere coraggiosi, di fronte ai piccioni. Farsi vedere spavaldi almeno quanto lo sono loro. E che cavolo!

post scriptum Mentre scrivo, un piccione è venuto a posarsi - o meglio: a tentare di posarsi - su un ramo dell'albero di fronte alla mia finestra. Sta facendo un casino: essendo i rami piuttosto leggeri, non appena il piccione tenta di affidare ad essi tutto il suo peso questi cominciano a precipitare, incapaci di sorreggerlo. Il piccione persevera. Cambia ramo e riprecipita ogni volta. Non capisce che rametti così sottili non possono sorreggerlo. Non ci arriva. Menomale che erano intelligenti. E va be'.
Al di là dello spettacolo infelice cui sto assistendo, ciò su cui mi interrogo sono le motivazioni della suddetta perserveranza: ha forse capito che sto parlando della sua specie? È stato inviato per spiare le mie mosse, per controllarmi, per - eventualmente - censurarmi? Quali ritorsioni devo temere, a questo punto?
Se nei prossimi giorni non avrete più mie notizie saprete con chi prendervela.

In tal caso, vi chiedo solo una cosa: fate giustizia.

mercoledì 16 dicembre 2009

così, così e cosà

Credo di aver capito finalmente come deve essersi sentito vitangelo mostarda la mattina in cui la moglie gli fece notare che il suo naso pendeva a destra.

L'altro giorno chiacchieravo con la mia amica laura, la quale mi raccontava che pochi giorni prima chiacchierava con la nostra amica silvia - un'altra silvia, non io - della loro comune amica silvia - stavolta sono io - e che, chiacchierando (porca la miseria, le donne chiacchierano veramente troppo: ho già utilizzato il verbo chiacchierare 3 volte) è emerso il fatto che io utilizzo sempre l'espressione "così, così e cosà".
Che cosa faccio io?!?!?! Dico così, così e cosà?
Non ci potevo credere.
Non avrei scommesso due lire sulla faccenda.
Se qualcuno mi avesse sottoposto ad un esame in silviologia e mi avesse chiesto una stima del numero di volte che la suddetta utilizza tale espressione nell'arco, diciamo, di una giornata, avrei azzardato uno zero e, apprendo ora, sarei stata bocciata. Per fortuna mi sono iscritta a fisica e non a queste "personologie" improbabili.
Inutile dire che da allora sono stata guardinga e attentissima a monitorare ogni mia conversazione; mi sono spiata, mi sono mentalmente registrata, ho pensato addirittura di ricorrere alle intercettazioni telefoniche per essere al tempo stesso efficace e, come dire?, alla moda e, ahimé, ho constatato che laura e silvia avevano ragione. Non faccio altro che dire "così, così e cosà".

Ma che persona è una che dice "così, così e cosà"? Tutta questa vaghezza, questa mancanza di definizione...Sembra quasi l'argomento di un vigliacco che si lasci aperti i mille, potenziali percorsi che si dipanano nella vita di ogni giorno per non schierarsi, per non opporsi, per non appoggiare.
Ma io non mi sento così (ho detto solo così!!! Niente così e cosà!)! Mi piace prendere posizione, sono litighina, all'occorrenza antipatica, bisticcio e mi arrabbio un sacco. Mi piacciono gli schemi, la chiarezza e uno dei difetti che trovo più deprecabili negli esseri umani è proprio l'ignavia.
Allora c'ho ripensato, ho ragionato meglio e, da brava femminuccia, ho adattato la realtà a ciò che volevo io, giungendo alla conclusione che non è altro che una questione di esaustività.

Ripensando a queste tre parole messe insieme mi sono resa conto che contengono un'infinità di cose.

C'è il mondo dentro che è così e il mondo fuori che può essere tanti cosà diversi; ci sono io che sono fatta così e ci sono tutti gli altri: c'è la gente che sta così così e quella che è veramente felice, senza perdersi per strada neanche i mezzi insoddisfatti che stanno un po' così. Ci sono posti lontanissimi dove il pane si fa così, panetterie da due soldi dove il pane è così così e la panetteria qui sotto casa che invece fa delle baguettes che so' 'na cooosaa, ma 'na cosaaaa...
C'è la giornata di ieri che è stata...così!, e quella frase senza senso che mi ha detto un tizio l'altro giorno sulla metro, ma era solo così, per dire.
C'è la tv educativa della serie televisiva "siamo fatti così", con il nonno globulo rosso che ha insegnato a tutti noi le basi della fisiologia umana.
Ci sono il minestrone, il polpettone e la macedonia, dove si mischiano tutti quei cosi insieme così e cosà e, voilà, l'intruglio è pronto, ma purtroppo non c'è il profiteroles perché quello richiede una procedura ordinata e non possiamo buttarla in caciara.
C'è la politica che in italia è così così, dove una parte dice così e l'altra cosà, ma quando chiedi di spiegare ti rispondono in ogni caso che faranno "così, così e cosà" e poi risulta falso pure quello.
C'è la lingua italiana e forse anche un po' il francese; il tedesco no.
Ci sono le scuole elementari - si fa così! - gli stati d'animo - sto così così - e i nomi dei negozietti di una volta che ormai stanno scomparendo - "cose così".

Insomma, c'è tutto (tranne il tedesco e il profiteroles).

Volevo solo essere completa. Per una questione di democrazia, diciamo così (così e cosà).
Eccola là. L'ho rifatto.

la gioia del caffè

Avete presente quando, cinque, dieci minuti dopo aver preso il caffè, sentite improvvisamente dentro di voi una grandissima forza, la sicurezza che farete tutto il fattibile nel pesante - ma, a pensarci ora, meraviglioso - pomeriggio lavorativo che vi attende, che finirete i mille progetti che avete in sospeso, vi laureerete entro la serata se non lo avete ancora fatto, finirete i lavori a casa, farete la spesa, smaltirete la posta arretrata - ah, che gioia la posta arretrata: tanta gente che ci vuole bene... - e in più farete tante buone azioni perché se siete felici voi devono esserlo anche gli altri e il mondo tutto, grazie ai vostri sforzi, diventerà (sempre entro la serata) un posto stupendo?
Ecco, quello è l'inganno e il disinganno della gioia del caffè.

Non avendo che scarsissime nozioni di chimica non posso porre basi scientifiche al mio ragionamento ma, da quanto mi dice ele (che, in quanto farmacista, di chimica e di stupefacenti capisce eccome) è probabile che un tale stato d'animo sia innescato dal caffè e dalle sostanze che contiene.

Ho cominciato ad identificare il fenomeno dentro di me nel corso degli ultimi anni: sia che fossi all'università, sia che stessi passeggiando, sia che fossi in compagnia di un amico, c'era sempre un momento, dopo aver preso il caffè, in cui sentivo una spinta, una forza, una gioia così intense, davanti alla prospettiva del pomeriggio che avevo di fronte, che non potevo che dirmi...felice. Tutto era bellissimo. Potevo fare davvero ogni cosa.

La periodicità del fenomeno, la chiara relazione tra il suo manifestarsi e la precedente assunzione di caffè, un campione - scientificamente quasi impossibile - formato dal 100% di casi positivi, mi ha fatto compiere il salto, azzardare l'identificazione di un rapporto di causa-effetto e proporre una teoria: tutta questa gioia viene dal caffè.

Purtroppo, la gioia del caffè inguaia anche.
Può infatti accadere che, durante quei minuti di paradiso, suoni il telefono o qualcuno bussi alla porta: potrebbe essere il capo che ti affida un incarico, un collega che ti chiede un aiuto o un amico che ti propone qualcosa. Come si fa a non accettare, in preda ad uno slancio furioso, qualsiasi responsabilità, a non promettere mari e monti, a non assicurare a tutta la gerarchia sopra di noi che il lavoro sarà svolto rapidamente, entro la serata, e che tutti ne saranno più che soddisfatti?? Fosse per noi risolveremmo anche il problema dell'inquinamento, la crisi immobiliare negli stati uniti e il fastidioso inconveniente del caro pasta!
Promesse pesantemente al di là della nostra portata che, non appena l'effetto del caffè svanirà, piomberanno nella nostra vita quotidiana in tutta la loro ingestibilità, sedute a gambe incrociate alla nostra scrivania con lo sguardo provocatorio e irridente che dice: e adesso evadimi!

Non evaderemo quelle promesse e nessuno se la prenderà con noi per non averlo fatto. Ma sarà stato bello crederci per qualche minuto, sentirsi promettere ad un amico qualcosa di straordinario e averlo fatto con tutto il cuore, o anche prenderci una responsabilità più grossa di noi che poi, volenti o nolenti, dovremo spezzettare in responsabilità più piccole che gestiremo una ad una nel corso di mesi e mesi (e non entro la serata, come avevamo pensato all'inizio).
Il pomeriggio passerà come era passata la mattina; ci sentiremo contenti, tristi o medi a seconda del periodo che stiamo attraversando, torneremo a casa a cenare con la minestrina e purtroppo, dopo dieci minuti dalla fine del pasto, non succederà nulla. Sarà tutto così...uguale. Andremo a nanna e sogneremo di quello che potremmo fare se solo ci dessero abbastanza mezzi e abbastanza caffè. Altro che superman.

Ma queste sono le gioie e i dolori della gioia del caffè.

post scriptum Sento di chiudere questo post con una domanda che mi gira in testa da tanto tempo, e alla cui risposta affermativa non mi riesco a rassegnare: ma siamo proprio sicuri che la visione più giusta, quella davvero equilibrata e realista della vita sia quella che abbiamo nei 60 x 24 - 5 = 1435 minuti della giornata in cui non viviamo la gioia del caffè? E se il mondo fosse in realtà come ci appare in quei cinque minuti di esaltazione, di ottimismo, di coraggio?
Ci dobbiamo pensare bene prima di dire di sì.

lunedì 14 dicembre 2009

gedanken experiment

Come dire, distinguiamoci dalla folla e creiamo una élite davvero impenetrabile.

Il gedanken experiment - letteralmente: esperimento concettuale - è una pratica introdotta nella fisica da albert einstein (guarda chi ti andiamo a scomodare), consistente nel figurarsi un contesto fisico e immaginare di svolgere in esso un esperimento, tentando di visualizzare, esclusivamente attraverso il ragionamento, i possibili risultati della procedura seguita. Insomma, un esperimento realizzato senza laboratorio, che si sviluppa interamente nella testa dello sperimentatore. Ai profani potrà sembrare una follia, ma in realtà è uno strumento logico e argomentativo di grande efficacia.
E fin qui tutto bene.
Ora arriva la parte in cui i miei amici fisici (maschi) inneggeranno al sacrilegio. Pazienza. Mi difenderò.
Io e le mie amiche abbiamo mutuato questa felice pratica dalla fisica per applicarla alle peregrinazioni mentali tipiche delle femmine.
Come è risaputo, le donne passano buona parte del loro tempo mentale "libero" a farsi film, a sognarsi storie di qualunque tipo che più o meno plausibilmente potrebbero popolare la loro vita quotidiana, a pensare a quell'uomo che ha detto loro quella cosa che voleva senz'altro significare il contrario etc, e a condividere tutte queste loro riflessioni con le amiche.
Si chiamano pippe mentali.
Tutte le donne ne subiscono il fascino, tutte le donne le utilizzano come strumento fondamentale per la comprensione dei maschi.
Tutt'oggi, le conversazioni più interessanti che ho avuto sono interminabili sedute con le amiche passate a riflettere sul perché quello avesse detto una tal cosa a quell'ora, guardandoci in quel modo, sottintendendo certamente quell'altra cosa che alla fine voleva dire che era innamorato pazzo di noi. Se poi la realtà è diversa e non rispetta la sentenza che le donne hanno emesso in proposito, la spiegazione è una sola: lui è proprio uno stronzo.
Sic et simpliciter.

Questo tutte le donne...tranne noi.
Le mie amiche ed io non ci facciamo le pippe mentali: noi facciamo i gedanken experiment.
Quanto siamo fiche.
Ci mettiamo lì, contestualizziamo, analizziamo scientificamente gli atti del protagonista maschio di turno e, attraverso metodi puramente logici, traiamo le dovute conclusioni.
Di nuovo, se queste ultime si rivelano sbagliate è colpa del suddetto maschio, con l'aggravante che, stavolta, il delinquente non si è limitato a violare le predizioni elaborate dalla chimica del cervello femminile, ma ha addirittura violato le leggi della fisica!
Un mascalzone.

perché capricci

Come al solito è colpa della pecorella.
Mi è capitata in sorte a causa di irricostruibili combinazioni genetiche più o meno 31 anni fa, e da allora condiziona la mia vita quotidiana in modo imperscrutabile.
Ah, giusto, non tutti la conoscono: la pecorella sono i miei capelli ricci. Ora che mi trovo - tutto sommato per la prima volta in via così ufficiale - a farne le presentazioni, mi viene spontaneo chiedermi come e quando è avvenuto questo battesimo: so per certo che alle elementari i miei capelli erano solo i miei capelli, e non la pecorella; con altrettanta certezza, posso dire che al liceo i miei capelli non erano più i miei capelli ma erano la pecorella. Se dovessi scommettere del denaro o qualcosa di più prezioso, direi che l'"ego te baptizo pecorella" risale alle prove del "Così è se vi pare" del nostro laboratorio teatrale, durante il quarto ginnasio, nella primavera dell'anno di grazia 1994. Vai a capire come è uscita fuori. Chissà se qualcuno degli amici di allora che ho la fortuna di avere ancora vicino si ricorda qualche dettaglio in più...
Detto questo, è facile immaginare come una povera bambina sovraccarica di ricci come ero io sia cresciuta sul sottofondo musicale della nota cantilena "Ogni riccio un capriccio"; si aggiunga a ciò un carattere non proprio accomodante (gli eufemismi al limite della menzogna sono ammessi, nei blog, vero?) ed ecco che, trovandomi a dover definire, al fine di dare un titolo, una sintesi lunga una parola di un contesto come questo, ovvero un blog - che ancora non ho capito come interpretare: diario virtuale? Spazio di condivisione? Luogo di transito di opinioni per confronto e, perché no, esibizione? - la prima parola che mi salta alla mente - luogo da sempre sotto la giurisdizione della pecorella, che la riscalda e ne attutisce i colpi da quando è stata creata - è stata proprio capricci.

Capricciosa io?!?!
Io??????????

...Prima che insorgano schiere di ex-fidanzati inneggianti al fantomatico onor del vero, la smetto di fare la risentita e confesso tutto subito: sì, sono capricciosa.
Nomina sunt consequentia rerum, anche se, alla luce di questa sentenza, sembrerebbe piuttosto che i ricci siano conseguenza delle cose, ma allora bisogna essere certi che, nei meccanismi genetici che hanno dato vita a questo pezzo di donna (???), il gene della capricciosità sia stato definito prima di quello dei ricci, come se, accortesi che la chimica dei geni caratteriali aveva dato vita ad una personalità piuttosto litighina, permalosa e antipatica, le dinamiche microscopiche incaricate della strutturazione dei caratteri tricologici si siano prontamente adeguate inserendo la sequenza tacg-gcat-tcga o quale che sia corrispondente ai capelli ricci. Ponendo una pecora sulla mia testa.
Difficile prendere una posizione riguardo a queste congetture; il poco determinismo che regola i meccanismi ereditari davvero mi impedisce di continuare a ragionare su questo punto.

Ma che cos'è un capriccio?
Non so quale sia la definizione psichiatrica/psicologica del fenomeno, ma negli anni, ragionando su me stessa, ho imparato a capire che cos'è un capriccio per me. Ne ho individuato il meccanismo.
Alla base di un capriccio c'è un desiderio. Non un desiderio qualunque, ma un desiderio che coinvolga altre persone.
Mi trovo a desiderare di vivere qualcosa con qualcuno, dove "vivere" e "qualcosa" possono assumere le forme più svariate: vivere può essere fare, donare, ricevere, condividere, e qualcosa può essere una proposta, una serata, una promessa, un viaggio.
Sento che questo desiderio dovrebbe essere non solo mio, ma anche dell'altro, e comincio a sentire che è ragionevole aspettarsi che l'altra persona cooperi con me alla realizzazione di questa spinta. Il punto è che la cooperazione deve essere spontanea. Se per caso non è così, quello che posso fare è provare a dare delle indicazioni, a far capire all'altra persona ciò che desidero sperando che essa ritrovi questo desiderio dentro di sé e cominci ad attuarlo. Se però questo mio "suggerire" supera una certa soglia la situazione degenera e si instaura il capriccio. Perché a questo punto non vedo più spontaneità, e se anche l'interlocutore, alla fine, intraprende il percorso di realizzazione del nostro desiderio condiviso, io mi sento a disagio.
Insomma, non lo voglio più.
Non mi piace più.
Ecco perché il bilanciamento tra l'assecondare un desiderio che coinvolga altri e la valutazione degli sforzi che è ragionevole compiere per realizzarlo è un meccanismo delicatissimo, che va operato con cautela e con la massima consapevolezza delle conseguenze che ogni passo di questo processo potrà generare.
La miglior schematizzazione di quanto descritto finora è la frase che a volte mi sono sentita dire: ma come, hai fatto tante storie ed ora non lo vuoi più?
Eh già, è proprio così. Ma ho sbagliato io.
Con gli anni, con la maturità ho capito che l'insistenza non fa per me, proprio per i motivi di cui sopra.
Alcuni amici mi dicono che sono troppo orgogliosa. In parte è vero, ma proprio negli ultimi mesi ho capito che l'orgoglio non è altro che una forma di tutela dalle delusioni: se qualcuno "mi prega" per avere qualcosa vuol dire che ci tiene davvero, e sarà probabile che il mio slancio, allorché acconsenta a concederglielo, non sarà mal riposto. Dietro l'orgoglio non c'è alcun senso di superiorità, è solo istinto di conservazione. Buffo è che, appena ho individuato questo meccanismo dentro di me, ho smesso di essere così orgogliosa. Sì, lo so, uno psicologo direbbe che non è buffo per niente...

Meno orgogliosa sì, ma i capricci li faccio sempre. E continuerò a farli.
Forse quando avrò dei figli smetterò, perché a quel punto, se tra le altre cose erediteranno la pecorella, saranno loro a farne, ed io sarò quella che li asseconda, i capricci, che li interpreta, che li capisce, che li coccola, e mi intenerirò tantissimo. Sarà stupendo.

post scriptum La regina del mio terrazzo, durante questo dicembre parigino, è senza dubbio ornella, la bocca di leone. Presa al mercatino dei fiori vicino notre-dame che era un piccolo ciuffetto malandato, nel corso dei mesi è cresciuta e ha prolificato in modo impressionante, quintuplicando le proprie dimensioni e dando vita a decine di fiori rossi e bianchi davvero meravigliosi. Ferma restando la gioia di vederla così felice, non posso non chiedermi come diavolo faccia a continuare a fiorire nel mese di dicembre, quando ormai stiamo entrando in pieno inverno e le temperature sono davvero basse. Questa occorrenza mi ha incuriosito, così mi sono messa a studiare approfonditamente la botanica di questa pianta per capirla meglio e spiegarmi questa curiosa circostanza. Tra le tante indagini, ho cercato il significato di questo pianta nel linguaggio dei fiori. Be', sorpresa delle sorprese, ho scoperto che le bocche di leone sono il fiore del capriccio. Sono rimasta senza parole. Nel medioevo venivano indossate tra i capelli dalle fanciulle che respingevano i corteggiatori, e regalare bocche di leone è sinonimo, quindi, di indifferenza.
Che i miei fiori mi abbiano capito più di quanto io abbia capito loro?